In questo racconto di Gaia Benedetti, studentessa di 3ª media A, il Molise diventa un luogo favoloso in cui ogni parametro della realtà viene sconvolto e ripensato. È qui, in Molise, che le dimenticanze del mondo si accumulano; e viverci non sembra poi così male. Anche se per poco tempo, il Molise di Gaia vale la pena di essere visitato almeno una volta.
Il mio amico Matteo ha sempre persistito nella sua convinzione di essere nato e cresciuto in Molise, ma io non ci ho mai creduto. È risaputo che il Molise non sia altro che una leggenda metropolitana.
L’ho conosciuto alla Sapienza, nella facoltà di Lettere, mi era subito sembrato un tipo simpatico e dopo qualche mese di amicizia, un giorno, di punto in bianco, mi disse: “Ti voglio portare a casa mia in Molise.”. Io pensai che stesse scherzando quando mi disse di essere molisano. A quanto pare no. “Il Molise non esiste, ma cosa dici!”. “Come no se esiste e sei pronta per visitarlo anche tu. Questo sabato alle nove ti vengo a prendere, partiamo.”.
Non che avessi molta scelta, ma decisi di andare. Ero incuriosita da quel tipo.
Sabato arrivò, e Matteo, come sempre, era spaventosamente in orario e verso le 9:10 partimmo in macchina.
Essendo le nove di mattina, finii per dormire lungo tutto il tragitto. Fui svegliata bruscamente dal sobbalzo della macchina. “Abbiamo preso un animale?” “No siamo solo arrivati.” Matteo scese dalla macchina e aprì il portabagagli tirando fuori due scatolette per il cibo. “Hai portato la merenda?”. “No, non proprio.”. Era rientrato in macchina e, solo mentre mi porgeva una delle due scatolette, mi accorsi che una luce veniva dall’interno degli strani contenitori. Decisi di accettare la merenda perché stavo morendo di fame. Una volta aperta la scatola, la luce diventò accecante.
“Dovresti trovare tre cubetti, sono per tre ore”. “Ma se tre ore le abbiamo fatte di viaggio! Pensavo che saremmo rimasti un po’ di più.” “Il tempo non funziona come al solito dove stai per andare”. Chiusi gli occhi, perché iniziavano a fare male dalla luce, e misi in bocca un cubetto. Aveva un sapore agrodolce. “Ma cos’è?”. “Ciò che è statisticamente più abbondante e distribuito nel mondo, infatti, sono dappertutto tranne che in Islanda.” “Non può essere.”. “E invece sì.”.”Mi hai dato da mangiare una barbabietola da zucchero?! Quindi si mangiano in questo modo? Non ne avevo mai vista una! A questo punto forse esiste anche il Molise”.
Una volta mangiati i nostri cubetti, mi fece scendere dalla vettura e si mise davanti a me. “Hai presente quando sembrava che avessimo urtato qualcosa?”. “Sì” “Beh, in realtà è una barriera, ovviamente invisibile. Adesso che abbiamo mangiato le barbabietole da zucchero saremo in grado di passare.”. Fece due passi; dalla strada in mezzo al nulla in cui si trovava la macchina mi ritrovai su un sentiero che portava un cartello e poi su una piazza gigantesca contornata da una città immensa, forse come dieci volte Roma, la città degli di oggetti perduti.
La piazza sembrava medievale, ma poi in lontananza si vedevano grattacieli modernissimi, forse addirittura successivi al XXI secolo. “ Vieni facciamo un giro e infiliamoci in un vicoletto”. Mentre camminavamo non facevo altro che notare che per strada vedevo o uomini e bambini molto semplici, contadini o umili lavoratori, e poi donne che sembrano far parte di cerchie intellettuali. Ho chiesto al mio amico il perché di questo curioso contrasto e lui mi ha risposto: “Beh, questa città è formata da ciò che è stato dimenticato: ci si scorda di uomini semplici e purtroppo, soprattutto nel corso della storia, ci si è scordati di donne che hanno fatto lavori strabilianti, ma che sono state oscurate dal maschio di turno”.
Avevamo passeggiato per una mezz’oretta ormai, quando mi venne in mente : “Non ho visto neanche un Municipio da quando siamo arrivati.”. “Oh no, non sono organizzati in quel modo qui. Vedi, il mondo è pieno di razzismo, egoismo, sessismo… in generale di privilegi a seconda di soldi e provenienze. Ecco, qui è tutto il contrario e sono anche riusciti ad organizzarsi in altri modi più efficienti”. “In che senso?” .“Beh, come già ebbi a dirti, questa è la città di ciò che è stato perduto, ma anche di ciò che non si è mai realizzato. Come un sistema di governo che funzioni. Più nel mondo peggiorano le cose, più qui migliorano. E vale anche il contrario, ma tanto i miglioramenti sono pochi e rari e spesso neanche molto efficaci. Questa città è fondata su valori e concetti che mancano al di fuori, il fatto che ci sia una forma di convivenza ideale è ciò di cui ci dovremmo preoccupare, perché vuol dire che fuori è un disastro!”. “Hai ragione è davvero triste”.
Non riuscivo più ad ammirare il clima di pace nelle strade, non riuscivo più ad apprezzare la soddisfazione nei confronti del mondo sui volti della gente, i bambini che si perdevano nelle strade lontano da casa e venivano riaccompagnati sani e salvi da sconosciuti, le ragazze che uscivano da sole anche con i pantaloncini, completamente spensierate, perché ripensavo solo al mondo animale e malintenzionato da cui provengo.
“Qualcosa che non va in questo posto però c’è.”. “E cosa?” “Qui non hanno l’arte che nasce come critica o come ribellione. Ci credi che qui non conoscono l’album “The Wall”?”. “Allora non so se sarei disposta a fare cambio.”
A un certo punto la strada che stavamo seguendo finì e con lei la città. Si vedevano in lontananza un paesino e dei magazzini enormi.
“Quello lì è il paese dove sono nato e cresciuto.” “Quindi non mentivi?” “No.” “E siamo sicuri che non sia un’allucinazione?”. Matteo rise. “Sì, siamo sicuri.” “Ma cosa sono quei magazzini laggiù? Sembra la tipica base operativa di Ikea talmente è grande.” “Quei magazzini contengono l’amore.”. “Non abbiamo forse l’amore nel resto del mondo?” “Non sono sicuro. Forse sì. Ma di quello vero ce n’è poco ormai. Si è realizzato veramente poche volte e queste spesso erano in romanzi o addirittura miti. E, inoltre, dove pensi che finisca l’amore ricambiato? È tutto dimenticato e man mano si è accumulato qui. Beh lì, a un certo punto, ha iniziato a diventare troppo e quindi hanno costruito quel magazzino, e cresce a vista d’occhio. Ad esempio, là dentro, una volta, ho visto botti e botti piene dell’amore dimenticato per definizione, quello tra amanti, quando l’Alzheimer consuma tutta la memoria, anche amori che si avevano nell’infanzia e soprattutto quello che è stato consumato dal dolore, come nei casi delle guerre. Quello occupa parecchio spazio, e del dolore che ne deriva in questo posto non se n’è mai vista l’ombra, perché nessuno scorda il dolore”.
“È il momento di tornare”. “Ma abbiamo impiegato due ore ad arrivare fin qui, come faremo a tornare in una sola?”. “Te l’ho detto che il tempo è un po’ particolare qui!”.
Così fu, anche se ancora non me ne capacito. Tornando notai che non c’era una chiesa, possibile che ricordiamo tutti i luoghi di culto mai esistiti? “Ma com’è che non c’è neanche una chiesa?”. “Se è per questo, non c’è neanche una moschea. Però il principio è che questa città non è solo un accumulo di roba, è un’effettiva civiltà che si è sviluppata autonomamente a partire da ciò che è dimenticato, e invece di creare religioni e celebrare divinità, una volta a settimana, si fa un gran pranzo con tutti quelli che consideri la tua famiglia, e semplicemente si festeggia la vita. Per fortuna non ci sono neanche le malattie mentali, come la depressione, per cui rischi di pensare che quei momenti siano forzature o attività per cui non hai energie.”
Credo che facemmo giusto in tempo a sorpassare la barriera, perché cinque secondi dopo il sentiero che portava alla città e quest’ultima sparirono completamente.
“Sono felice che tu abbia apprezzato il Molise!”. “Potremmo tornare?”. “Credo proprio di no.” .“Sì, me lo aspettavo”. Salimmo in macchina e tornammo a casa.
Tutt’ora non penso che dovrei essere felice di aver visto quel mondo: rende solo la tolleranza di quello in cui vivo più complicata. Perlomeno c’è qualcuno che vive felice.
un racconto di Gaia Benedetti, 3ª media A